Pietro Gatti il Poeta di Ceglie Messapica.

…e della sua terra rossa

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19 gennaio 1913 * 19 gennaio 2013

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Negli scritti dell’autore vissuto a Ceglie Messapica, nato a Bari il 19 gennaio 1913, tangibili sono il fermento di una certa vivacità culturale, la tendenza verso una contemplazione meditata e assorta, un particolare gusto per l’autobiografismo, manifestato qua e là nei versi in dialetto brindisino cegliese. Questi aspetti rendono l’opera poetica di Gatti più riconducibile nell’ambito dei poeti dialettali di arte piuttosto che nella sfera della schietta tradizione popolare e ciò lo si constata facilmente leggendo le traduzioni in lingua dei suoi componimenti dialettali. Un mondo meditativo, quello dell’autore morto nel silenzio della campagna cegliese il 27 luglio del 2001 all’età di 88 anni, con una tendenza spiccata verso una introspezione che sembra assumere, a volte, toni esasperati. Il poeta propone il suo smarrimento che scaturisce dalla consapevolezza del misterioso corso delle vicende umane, una serena considerazione del proprio destino. Tante le occasioni di riflessioni e intriganti pensieri.Pietro Gatti in un disegno di Uccio Biondi

Dopo che i fari si accesero sul nostro poeta in occasione della pubblicazione dell’opera omnia da parte di Manni editore, pare tornato l’oblio; c’è da rammaricarsi delle nuove distrazioni scese su Pietro Gatti, ma noi ci ricordiamo di Lui, ricordiamolo anche oggi in occasione del centenario della sua nascita. In suo onore riportiamo, ancora una volta, un intervento di Donato Valli suo grande amico ed estimatore.
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Con Pietro Gatti, mite e grande poeta in dialetto di Ceglie Messapica, è un altro pezzo del Salento che scompare. Rimane intatta, ma resa più tragica e solenne da questo evento, la scia luminosa della sua poesia.
Era il 1976 quando nelle nostre case giunse come angelo portatore di messaggi di altre terre, di altri destini, un modesto libretto stampato da Schena di Fasano, A terra meje (La mia terra). Nessuno di noi, cultori occasionali della letteratura salentina, aveva sentito parlare di Pietro Gatti; ma quando io e Oreste Macrì e Mario Marti ci trovammo in uno dei soliti conversari estivi a scambiarci le esperienze delle nostre letture e dei nostri lavori, non potemmo fare a meno di parlare di questo libretto che si era imposto alla nostra attenzione con una veemenza inusuale per chi è abituato a ricevere e leggere centinaia di libri di poeti più o meno veri e vivi. Eppure Gatti aveva vissuto nel silenzio e nel suo romitaggio cegliese oltre sessant’anni della sua vita, casta ed essenziale fino all’inverosimile.
Con lui irrompeva nella letteratura dialettale del Salento il più alto e maturo Novecento poetico. Il passaggio dal Sette all’Ottocento aveva salutato il realismo arcadico di Francescantonio D’Amelio; il passaggio dall’Otto al Novecento il realismo romantico di Giuseppe De Dominicis; il Novecento il realismo fantastico e cosmico di Pietro Gatti. La sua Ceglie diventava il centro dell’universo, mai un punto così umile e modesto della ideale carta geografica dell’umanità si era slargato fino a comprendere le fatiche, i dolori, i sacrifici, la morte di tutti i contadini e diseredati del mondo. Infatti attraverso la storia di miseria e di nobiltà dei personaggi passa il dramma di una umanità costretta a misurarsi con il male storico dell’esistenza, a gioire del suo dolore, a respirare dei suoi sogni, a vivere della sua morte.
In Gatti l’adesione alle ragioni telluriche, fatali di questa povertà, di questa asprezza di vita, sembra qualcosa di naturale, di istintivo, una sorta di grazia concessa all’uomo da un dio spietato perché egli avesse coscienza del suo destino. Nulla di più astratto e nulla di più concreto; mai tanta sofferenza di pianti nella nostra poesia aveva raggiunto tali effetti di umanissima pietà e consolazione, mai la religione si era vestita dei panni di chi lotta, senza odio e senza invidia, per la sopravvivenza, forte soltanto di uno spirito che è la somma di tutte le offese subite nel corso della storia della terra.
Nel 1984 vedeva la luce di un altro libretto di poesie che è il giusto complemento del primo, dal titolo ‘Nguna vite (Alcuna vita). Questa volta, l’attenzione del poeta si era fermata sui bambini precocemente morti per via delle privazioni, dello sfruttamento, dell’abbandono, del semplice scatenarsi di forze naturali incontrollabili. Gatti si era identificato con la morte di tutti gli innocenti e ci faceva giungere in una sorta di Spoon River salentino, le voci flebili di vite incompiute e sofferenti di questa loro incompiutezza.
Eppure in tanta spontaneità di sentimenti, quanto lavorìo, e quante letture, e quanta cultura si avvertono! Gatti ha dietro di se un bagaglio di segreti studi, grazie ai quali conferisce al dialetto un’armonia, un ritmo, una risonanza che riscattano la sua povertà e lo impongono come l’espressione più alta e naturale di profondi pensieri e di universali sentimenti.

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