Pietro Gatti
Pietro Gatti (Bari, 1913) vive fin dalla più tenera età nel paese di origine della famiglia, Ceglie Messapico. Ha lavorato presso il suo Comune in qualità di vice segretario generale.
Ha pubblicato: Nu viecchie diarie d’amore [Un vecchio diario d’amore], Ceglie M., La Messapica, 1973; A terra meje [La terra mia], Fasano, Schena, 1976; Memorie d’ajiere i dde josce [Memorie di ieri e di oggi], Cavallino di Lecce, Capone, 1982; Nguna vita [Qualche vita], Fasano, Schena, 1984.
Critica: M. D’Elia, La poesia dialettale di Pietro Gatti, Galatina, Congedo, 1973; F. Lala in “Studi Salentini”, XLIX-L, 1976; G. Custodero, “Controcronache di Puglia”, 15 marzo 1977; R. Nigro, “Quaderni del Gruppo Interventi Culturali”, luglio 1977; D. Valli, “L’Albero”, 57, 1977; M. Marti in Studi in onore di R. Spongano, Bologna 1980; Id. in La letteratura dialettale in Italia, a cura di P. Mazzamuto, Palermo 1984.
Non si conosce autore pugliese più radicalmente legato al mito ctonio, al richiamo orfico della natura. Gatti ha intrapreso da sempre (fin da Nu viecchie diarie d’amore) un suo personalissimo e sofferto viaggio nelle viscere del suo spirito, che si identifica interamente con la sua terra: quella di Ceglie intitolata al popolo molto antico dei Messapi, e che
pur parte del Salento è, con le sue coloriture sannitiche, un’isola linguistica. Con questo dialetto Gatti ha costruito il suo mondo espressivo, opponendo istintivamente questo Sud amaro e pietroso, le sue fatiche e le sue bellezze all’avanzare inesorabile della civiltà industriale. Più che farne, però, motivo reazionario e oscurantista, cadendo nel tranello di una realtà incontaminata, l’autore ha cercato di tener viva la ragione alternativa di una realtà così perentoria: e cioè dare voce, attraverso la discesa agli inferi, all’inconscio, all’indicibile, al sorprendente, alle forme ancora non formate. Lungi dall’essere nostalgia o culto del passato, la poesia di gatti ha voluto significare, tramite il paesaggio naturale e la difesa dell’interiorità contro l’alienazione della realtà.
Il ritorno alle origini, insomma, è stato la salvezza della propria autenticità e il riconoscimento e il salvataggio di una civiltà, sia nei suoi aspetti materiali che in quelli magico-spirituali. Nell’ultima produzione di Gatti si avverte il turbamento che dà il sentimento della morte. L’esistenza appare pressoché compiuta, le esperienze lontane nella memoria e le sensazioni attuali non più che tramiti, increspature, epifanie appena accennate. Il segno più visibile è quello dell’attesa e del godimento del tramonto, in un lampeggiare di fiori, fuochi, farfalle, fili di luce: basta il desiderio e da tutto questo può nascere, ancora una volta, la suprema felicità della parola e della poesia.